sabato 3 maggio 2014

Dik Dik - Storia di periferia


Dopo che con la copertina di “Vendo casa” avevo dato al gruppo un’immagine inusitata, per il disco successivo riprodussi un’istantanea fatta in una strada cittadina. Mi piaceva mettere sulla busta uno squarcio di realismo, mettere in contatto il mondo della fantasia con un taglio di vita quotidiano, anche se ricostruita: il disegno del gioco del saltarello lo disegnai io sul marciapiede, la strada stava dietro la trattoria Adriatica e la bimba che fa i versacci verso macchina è la sorella più piccola di Vanda, Monica, questo è il suo nome, l’altra ragazzina di spalle che sta saltando è invece una sua compagna di classe, anche i versacci sono fasulli perché glie li chiesi ma non fu difficile. Monica era una ragazzina schiva e introversa non permetteva a nessuno di fare breccia, ricordo che quando tornava da scuola entrava in trattoria e senza salutare nessuno si sedeva ad un tavolo nella saletta a fianco la cucina, la madre la serviva immediatamente , pasta al burro e cotoletta alla milanese erano le uniche cose che mangiava. Nessuno poteva rivolgerle la parola, non ti rispondeva stava con la testa china sul piatto. Aspettava che la madre avesse finito in cucina e standole appiccicata al braccio tornavano a casa. C’era una notevole differenza di età tra lei e le sue sorelle, un anno divideva la più grande Pinuccia dalla seconda Sonia, quattro invece erano gli anni che separavano Sonia da Vanda, mentre ben tredici erano gli anni di differenza tra la Vanda e Monica. Monica adorava la madre, ma tutte le figlie adoravano la madre, non si poteva non amare una donna simile. Quando la conobbi capii che cosa era una mamma, non che la mia fosse terribile, ci voleva bene a me e mio fratello, ma non sapeva dare senza chiedere. Gemma invece con quel suo sorriso tenue ed il capo leggermente piegato sulle spalle, dava incondizionatamente senza mai chiedere. Anche quando avevamo bisogno di un aiuto economico era sempre pronta a rinunciare lei per dare a noi, senza problemi e con leggerezza nonostante il loro conto fosse spesso in rosso. Quando ci veniva a trovare, con Monica appiccicata al braccio, ci portava sempre qualcosa da mangiare, preoccupata com’era che non mangiassimo. Il padre invece, il mitico cavalier Luigi, era buffissimo assomigliava a Peppino De Filippo con un sorriso chiassoso e dirompente, completamente preso da sé stesso e dalla sua voglia di esistere. Quando rimanevo chiuso in camera oscura fino a tarda notte, mi facevo compagnia con la radio, e cercando la sintonia mi capitava di fermarmi su Radio Meneghina, la mia preoccupazione era di sentire tra le telefonate dei radioascoltatori, la voce del cavalier Luigi in arte Luis, che invece di decantare una delle sue poesie d’amore, parlava di suo genero e di sua figlia, cioè noi, non era cosa grave sia ben chiaro anche perché la stima che provava era sopra ogni limite, ma proprio per la sua stima eccessiva, le sparava grosse così grosse da mettermi in imbarazzo.

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