Il giocatore di dama
Stava seduto dietro il rosso trasparente del calice di vino, il
vecchio giocatore di dama. Tra le dita snocciolava le pedine nere
dell’avversario, mentre con il gomito prendeva d’assedio la scacchiera.
Fumava all’angolo sinistro del labbro, un toscano spento già da
tempo e mentre elencava le prodezze del passato, cercava ostinatamente
d’irritare il dirimpettaio che testardamente restava muto. Il vecchio però
incurante arrogandosi il diritto dell'esperienza, continuava a parlare lento e
inesorabile.
Alle spalle la gente silenziosa, fissava il tavolo da gioco
cercando tra le venature della scacchiera una risposta alle loro curiosità.
A volte le pedine acquistavano un presenza tale che ai
contendenti risultavano così pesanti da rendere difficoltosa ogni mossa. Le
dita, schiacciate sui dischetti, vi rimanevano incollate non volendosene
liberare, quando poi si decidevano, con lentezza spossante ritornavano ad
appoggiarsi al tavolo.
La partita durava già da tempo e le continue interruzioni la
rendevano ancora più estenuante. Nessuno dei due sembrava avesse la meglio, ma
più che il confronto la noia pareva vincesse.
Il vecchio giocatore aveva però capito che prima o poi sarebbe
rimasto in minoranza, e la cosa lo incupiva, non voleva in alcun modo scendere
dal trono che da sempre occupava lì alla taverna, così lasciò la lingua sciolta
a rapinare al vento le scuse più impensabili sulla inutilità di quel confronto.
E il giovane avversario, ignaro della sua supremazia, si spremeva il pensiero
per cercarvi un’intuizione utile a raccogliere quell'eredità che il maestro suo
malgrado stava cedendo.
Il vino scorreva come le parole che senza senso svolazzavano
sopra quel tavolo e il cantiniere addormentato tra i fiaschi e i bicchieri
sporchi schierati a rinfusa sul bancone, si attorcigliava la faccia con le
palme aperte e ruvide.
Poi d’improvviso la tramontana portò, con il freddo tagliente
misto al sapore acre di muschio, un fisarmonicista che spalancata la porta,
seguì d’appresso il suo strumento.
La tastiera lucida brillava tra i fumi dell’alcol che avevano
scalati i muri sino al soffitto. Con il volto liscio e senza umori il musicista
si appoggiò alla cassa armonica, allargò le braccia trascinando con sé il
soffietto che spinse i suoni fuori dallo stomaco. Il giocatore di dama si girò
di scatto cercando di capire chi aveva distolto il suo pensiero, poi sorridendo
con una bestemmia, si alzò e come se fosse stato pizzicato da una tarantola, si
mise a saltellare attorno al tavolo; dribblando le panche e le botti incestate,
agguantò la moglie dell’oste, che aveva la pancia appoggiata all’angolo del
bancone. La donna si fece ingoiare dalla danza e muovendo il suo culo
smisurato, lanciava le gonne per ogni dove. Il palchè che da anni subiva ogni
atrocità, sobbalzava al taccheggiare dei due.
Rossi come melograni sbucciati, i visi erano tesi a non perdere
il ritmo mentre il musico con lo sguardo dritto alla finestra che stava
dinanzi, incominciò a fischiare con un sibilo acuto e perforante.
Non c’erano confini per i due girovaghi, così che gli avventori
per non interrompere quel veleggiar di baleniere, s’andavano a schiacciarsi
contro le pareti. Solo la scacchiera ed il suo dirimpettaio erano rimasti fermi
ad osservarsi, riflessivi attendevano che il loro destino si avvicinasse.
E così avvenne
che ad avvicinarsi non fu solo il destino, ma anche il culone dell’ostessa che
nell’impeto, involontario per lei, volontario per lui, gettasse all’aria la
dama, le sue pedine ed il corrucciato possibile, ma non dimostrabile, quindi
inverosimile, vincitore.
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